Trekking in Ecuador: ascesa al vulcano Cotopaxi

Il Parco Nazionale del Cotopaxi è di certo uno dei territori più affascinanti dell’intera Cordigliera delle Ande: si sviluppa con ampie vallate di morbido paramo andino intorno al re dell’ecosistema, il vulcano Cotopaxi.
O ‘collo della luna’ come lo chiamano le popolazioni quechua: questo perché in alcuni periodi dell’anno, più o meno intorno al solstizio di primavera, la luna sembra salire direttamente dal centro del cratere del vulcano. É una delle montagne più affascinanti del Sudamerica: scalare i suoi 5.897 metri è un’esperienza unica, ma non alla portata di tutti, a causa della presenza di numerosi crepacci e seracchi che rendono l’attraversamento del ghiacciaio pericoloso, anche se non tecnicamente difficile.
Chi non sa usare piccozza e ramponi può comunque godersi la sagoma maestosa dal basso, o cimentarsi in escursioni a piedi, a cavallo o in bici tra laghi andini in quota o sulle pendici dei monti circostanti.
Ho avuto la fortuna di trascorrere 3 giorni nel Parco Nazionale e di salire fino quasi a 5,300 metri di quota prima che la mia scarsa conoscenza del ghiacciaio e delle rudimentali tecniche dell’alpinismo mi suggerisse di fermarmi.
Questo è il racconto del trekking, pubblicato anche nel mio libro Cento giorni di vertigine.

Parque Nacional de Cotopaxi, 6 di sera

Dopo venti chilometri su una nervosa strada sterrata, in principio in una foresta di alberi sottili e numerosi, poi in una pianura così verde che pare artificiale, la camionetta bianca del custode del parco mi abbandona – è proprio il caso di dirlo – davanti al rifugio Tambopaxi, a 4,150 metri di altitudine.
Siamo nel pieno della stagione delle piogge, ma nemmeno nei miei sogni più rosei avrei potuto immaginare di essere l’unico ospite della struttura: condivido questo eco-lodge di mattoni e fango con il tetto in paglia – nel solco tipico delle costruzioni andine – con il responsabile, la moglie e un paio di figli che si danno da fare in cucina. La comitiva è completata da alcuni simpatici alpaca che stazionano nei pressi del lato settentrionale dell’edificio.
I gestori mi accolgono con lo scetticismo che si riserva ai backpackers solitari.

“Di solito riceviamo gruppi organizzati. É un periodo un po’ morto per il turismo a causa del brutto tempo e non ci sono escursioni programmate nei prossimi giorni. Sempre che il tempo lo consenta, dovrai salire senza guida.”

Tambopaxi

il rifugio Tambopaxi, con il gigante sullo sfondo

Posso scegliermi la camera migliore – la numero due – che ha otto letti e un’enorme finestra panoramica dalla quale osservare il maestoso profilo a cono del vulcano. Dalle vetrate di questa mansarda la vista spazia su un deserto sterminato di paramo che si estende a perdita d’occhio segnalando il passaggio dal limite della vegetazione forestale a quello che c’è sopra, mentre due condor volteggiano proprio al di là del vetro.
É la straordinaria vita sopra i quattromila metri.
Sullo sfondo, a quattro ore di cammino, il Cotopaxi riposa placido, come un guerriero silenzioso in attesa degli attacchi che gli alpinisti gli portano quasi quotidianamente, perlopiù facendo tappa al rifugio Jose Rivas dove si arriva con un buon 4×4. É l’imbrunire e il sole basso alle nostre spalle tinge di rosa la neve costruendo uno scenario magico e surreale. Dal confortante letto della camera pare sufficiente appena per farci un pupazzo di neve, ma so bene che è solo la prospettiva a farmi apparire quell’enormità di ghiaccio come una spruzzata di panna montata sul gelato.

Cotopaxi, o ‘collo della luna’

Cotopaxi in lingua quechua significa “collo di luna”: questo perché in alcuni periodi dell’anno, più o meno intorno al solstizio di primavera, la luna sembra salire direttamente dal centro del cratere del vulcano.
Lo spettacolo che ho davanti lascia senza fiato e non c’entra l’altura: da oltre un’ora sto guardando questo cono gelato bianco e perfettamente simmetrico illuminato dagli ultimi raggi di sole. Proprio dove inizia la panna montata c’è un puntino di colore giallo: è il piccolo rifugio José Rivas, ultimo avamposto proprio all’inizio del nevaio, mio punto di arrivo di domani, a 5,000 metri o su di lì.
Non piove da due giorni e mi sento bene, i problemi di disidratazione sono un brutto ricordo e ho passato gli ultimi giorni a camminare su e giù per le protuberanze sgarbate di Esperanza.
Sono pronto: domani sarà una giornata dura, e spero che il sole mi assista.
Le luci piano piano si affievoliscono e le tenebre scure avvolgono tutto l’orizzonte. Ora la montagna sembra aggressiva e fa paura per davvero.

Chiudo gli occhi e mi concentro sul respiro. Inspiro aria azzurrina che sento scendere nell’addome. Espiro un refolo rosso, gonfio delle preoccupazioni che lascio andare via.
Ma è così intenso essere qui da solo. Adesso.

kvalvika ryten

alba sul Cotopaxi

Rifugio Tambopaxi, 6 di mattina

Ieri notte non ho chiuso occhio. Nel grande stanzone con sette letti vuoti e silenziosi, sentivo la presenza del Cotopaxi appena fuori della finestra. Una presenza rassicurante, paterna.
L’alba è stata grandiosa: la luce è arrivata prima sulla vetta del vulcano che sembrava una star su un palcoscenico completamente buio, poi ha cominciato  ad abbassarsi scacciando la nera notte e rivelando la gloriosa montagna.
Mi sono vestito con le poche cose calde che ho portato con me e un cambio integrale nello zaino. Due barrette ai cereali, una banana, frutta secca e due litri d’acqua.
Mentre guardo ancora estasiato il giorno prendere possesso della vallata, un kinde – piccolo colibrì di colore scuro che scorrazza da queste parti – continua a picchiettare sul vetro, quasi a farmi fretta.

”Andiamo, andiamo, il vulcano ti aspetta.”

Ho dovuto attendere le sei perché il rifugio prendesse vita e la moglie del custode mi preparasse la colazione. Decisamente ricca: uova, yogurt, pane integrale, frutta, marmellata e caffè. Mangio con voracità: avrò bisogno di tutte le energie possibili.
Sono uscito poco prima delle sette in una mattina luminosa come poche ma ancora molto fredda, ed era quello che speravo. Nel momento in cui le forze vengono meno, mi auguro di poter contare almeno su una temperatura più mite in grado di farmi dimenticare la fatica.
Il rifugio José Rivas è settecento metri più in su.

Tambopaxi

il paramo, il morbido terreno andino

Comincio a camminare rilassato nella lunga depressione che arriva sino ai piedi del vulcano: il silenzio – rotto solamente da qualche folata di vento – è impressionante. Scorgo un cara cara, un’aquila di piccola taglia piuttosto comune a queste altitudini.
Cammino su una moquette di paramo, un tappeto morbido come ovatta. I primi raggi del sole baciano la cima del Cotopaxi, che appare ancora irraggiungibile.
La prima ora scorre veloce e senza fatica: oramai sono acclimatato a queste alture e il sole inizia a farsi più rosso e caldo sbucando dalle alture alla mia sinistra.
Sembra di passeggiare in una pianura fertile, e continuo ad avere di fronte la macchia gialla del rifugio, bussola preziosa per orientare il mio percorso senza errori.

Un errore di valutazione

Allo scoccare della seconda ora di cammino, mi rendo conto di aver tenuto troppo sulla sinistra rispetto al costone dove sorge il rifugio. Finora non mi ero preoccupato troppo della linea, in quanto ero in piano e impossibilitato a valutare la prospettiva, ma salendo su una collinetta mi trovo a guardare un corso d’acqua largo parecchi metri – quasi un canale di scolo artificiale – impossibile da superare. Non c’è verso di trovare un guado per attraversare.
Ora che osservo meglio mi accorgo di essermi allontanato tanto dall’obiettivo, è difficile calcolare le distanze in questo paesaggio incontaminato ma che non offre punti di riferimento.
L’unica possibilità è tornare sui miei passi: più a destra ci deve sicuramente essere la possibilità di passare per congiungersi con la strada che i fuoristrada percorrono per arrivare al parcheggio del rifugio.
L’intuizione è giusta: a meno di un chilometro dalla deviazione scorgo il ponte che permette di attraversare il fiume.

kvalvika ryten

cavalli selvatici a quasi 4,000 metri di quota

Ora il pendio inizia ad essere decisamente inclinato e trovo un cartello di segnalazione dell’altitudine. 4.100 metri. Significa che in due ore non sono salito di nemmeno un metro!
Nonostante ci sia ancora il sole, comincia a far freddo.
Il vento si è rinforzato e scende dalla sommità del vulcano che ora troneggia maestoso esattamente sopra la mia testa. Spazzando il ghiacciaio, si porta dietro minuscole particelle gelate che mi colpiscono con forza sul viso. Il vento può diventare così assordante da far paura a volte, e l’unico modo per dimenticarsene e accendere la musica del lettore mp3 a tutto volume.

L’altitudine inizia a farsi sentire

e le gambe diventano via via più pesanti: affrontare la salita faccia a faccia, in linea retta, richiede un dispendio di energie troppo elevato e decido di riportarmi sulla strada utilizzata dalle auto che sale tra ripetuti tornanti. Questo mi costringe ad allungare molto la via.
Mi fermo un momento contro la barriera di terra ai lati della strada per mangiare al riparo della bufera: una barretta e una fetta di pane integrale requisita per fini umanistici a colazione.
Sono in marcia da tre ore.
Comincio a vedere sopra la mia testa uno spiazzo con alcune auto parcheggiate: è il punto di arrivo per gli escursionisti motorizzati. 4.500 metri.
Restano quattrocento metri per arrivare al rifugio, e sono i più duri: ho di fronte un muro verticale. Lo vedo, lo posso toccare se allungo una mano, ma a questa altitudine è meglio non dare troppa confidenza alle cose.
Le nuvole hanno oscurato il sole e qualche goccia di pioggia si unisce alla neve spazzata dal vento.
Qualche coraggioso – tra quelli che sono arrivati fin qui con il fuoristrada – cerca di salire in linea retta lungo un canalone di sassi e ghiaccio che ricorda il residuo che rimane nel bicchiere del mojito quando si finisce il cocktail. Non è un’opzione fattibile per i miei muscoli doloranti.
Un piccolo sentiero si sviluppa a zig zag sulla parte sinistra della montagna, costeggiando i lunghi seracchi di neve staccati dal ghiacciaio.
É un cammino più facile ma spazzato da un vento glaciale che rende quasi impossibile procedere in posizione eretta.
Comincia a girarmi la testa, e il rumore del vento è così assordante da non riuscire a pensare. É come se la mente fosse sotto il controllo di qualcuno che dice di rinunciare. Ma la sagoma gialla del Josè Rivas è oramai così vicina da sentire l’odore pungente di piscio che proviene dal bagno esterno, e riprendo il controllo.

Tambopaxi

il rifugio Jose Rivas a 4,870 metri slm

Entro nella struttura di mattoni proprio mentre la pioggia si trasforma in neve. A differenza del Tambopaxi in questo rifugio ci sono molte persone, perlopiù tour organizzati con guide locali a dispensare indicazioni sul proseguo dell’ascensione.
Devo cambiarmi i vestiti fradici e raggiungere il ghiacciaio prima che le condizioni diventino troppo difficili.
Mangio un po’ di pane e cioccolata, indosso il piumino che avevo nello zaino ed esco di nuovo al freddo.
Nei dieci minuti di sosta le condizioni meteo sono di nuovo cambiate e ora un pallido sole fa capolino tra la coltre di nebbia e ghiaccio.
Riprendo a salire sulla destra del bagno in una pietraia lavica, con tinte che virano dall’ocra al rosso, per fortuna non molto ripida.

Il ghiacciaio del Cotopaxi

Dopo pochi minuti sono circondato dalla neve. Il bordo compatto e scuro del ghiacciaio perenne è poco sopra, saranno al massimo trenta metri di dislivello. Ciò significa che sono intorno a quota 5.100 metri. Sono dove volevo arrivare, ne più ne meno. Indosso dei ramponcini di gomma presi in prestito a Latacunga e continuo la marcia fino ad un primo crepaccio che taglia il nevaio sulla mia sinistra, a monte rispetto al sentiero già battuto nella neve.
Proseguire è molto pericoloso perché ad ogni passo c’è il rischio di scivolare e le probabilità di arrestare una scivolata sul ghiaccio senza piccozza sono inferiori a quelle di vincere al superenalotto.
Faccio alcune foto e mi preparo a ridiscendere proprio mentre scorgo due figure che salgono seguendo le mie orme sulla neve.

Cotopaxi cover

l’impressionante cratere del Cotopaxi

Uno strano incontro a 5,000 metri

Ad un tratto proprio davanti a loro attraversa un cane dalla coda lunga, si ferma, li osserva per qualche secondo e prosegue nella mia direzione. Ora lo vedo molto bene, è una bellissima volpe di colore giallo.
Ma che ci fa una volpe su un ghiacciaio?
“La natura è ricca, c’è posto per tutti” – diceva Chaplin.
Ci incrociamo tutti e quattro in un gelido quadro artico. La volpe non pare per nulla spaventata dalla nostra presenza: è a caccia di snack.
Faccio conoscenza con i due escursionisti che mi hanno raggiunto. Barbara è una signora australiana dalla pelle bruciata dal sole che sembra decisamente fuori luogo quassù. Ci tiene a comunicarmi le sue origini italiane.
William Parreno è la sua guida ecuadoregna. Barba lunga e pantaloni corti, non genera troppa fiducia: non a sufficienza per slalomeggiare tra i crepacci. Però almeno a differenza mia hanno piccozza e sono legati in cordata.
Sono pronto per scendere, ma prima di inoltrarmi nel costone di roccia dove è incastonato il rifugio lascio spaziare la vista all’orizzonte.
È impossibile vedere tutta la vallata ma so che laggiù, confusa nella nebbia, c’è una piccola macchia rossa. Da là sono partito, e mi sembra incredibile aver fatto tutta questa strada.
Ora dovrò farla di nuovo al contrario, in discesa e con lo zaino pesante il doppio: sono tutte le emozioni che ho raccolto in questa giornata incredibile. Ma non mi pesa neanche un po’.
Laggiù nella valle, alcuni cavalli selvatici giocano a rincorrersi nella radura. Un  buon posto per mettere la tenda. Mentre mi avvicino di buon passo, mi par quasi di vederli sorridere.

kvalvika ryten

in discesa verso la vallata 

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