Translagorai in solitaria: la severa bellezza della roccia (parte 1)

Ho fatto la mia prima Translagorai in solitaria colpevolmente tardi, nell’agosto del 2018, godendo di un isolamento davvero inatteso se si considera il sempre maggiore affollamento delle nostre montagne. Poi ci sono tornato molte volte, bivaccando al Coldosè o campeggiando sulla Cima Cece. Anche il giorno della tempesta Vaia ero lassù, e ne sono ridisceso appena in tempo.
Ma quello del 2018 è stato un trekking particolare, in un momento davvero difficile della mia vita, in cui il sottile male oscuro, per citare Berto, mi stava trascinando più in giù di quanto potessi sopportare.
Sarebbe abbastanza banale dire che il porfido severo e arcigno del Lagorai ha cancellato il mio disagio, ma forse un paio di sedute di psicoterapia me le ha risparmiate.
Questo è il diario di quei giorni, che ho cercato di completare con informazioni più tecniche in modo che possa anche essere una guida utile per chi ha intenzione di fare questo trekking bellissimo nei prossimi mesi.

Translagorai Summary

Start:
Chalet Panarotta

End:
Passo Rolle

80-85 km

4-5 giorni

D+: >5,000 mt

DIFFICILE

Nota su chilometri e dislivelli

La catena del Lagorai è caratterizzata da un continuo susseguirsi di cime, valichi e distese rocciose in un ambiente ancora selvaggio e relativamente poco battuto. Inoltre, essendo stata un’area di presidio alpino durante la Grande Guerra, vi sono ancora antiche tracce di camminamenti militari che portano a trincee o gallerie. Pertanto, soprattutto sulle placche di porfido che consentono diverse interpretazioni alla traccia, si possono percorrere anche centinaia di metri in più o in meno per volta: il chilometraggio (ed il dislivello) totale dipenderanno da quale traccia si sceglie di seguire. Ad esempio secondo il mio Garmin durante la mia traversata ho percorso complessivamente 84 chilometri per poco più di 5,000 metri di dislivello positivo.
Inoltre, io sto considerando la traversata rimanendo sempre in quota, senza mai andare off trail. Questo vincola ovviamente a pernottare in tenda o nei pochi bivacchi presenti, peraltro molto belli ed accoglienti. Ovvio che chi volesse invece il comfort del rifugio o della malga è costretto a scendere di quota per poi risalire, allungando il chilometraggio di conseguenza e possibilmente il numero di tappe.
La Translagorai rimane – per fortuna – un trekking immerso in un’area selvaggia e pertanto senza grandi punti d’appoggio o vie di fuga.

Le mie tappe

Mi ero prefissato di completare la traversata in 4 giorni (3 notti), un obiettivo piuttosto sfidante per le condizioni del terreno – soprattutto nell’ultimo tratto verso il Passo Rolle – e i dislivelli. Avrei potuto farcela se non fossi stato sorpreso da un temporale tremendo nel primo pomeriggio del quarto giorno, proprio sul tratto più esposto tra la Cima Valbona e le Cime di Bragarolo.
Ero a meno di 10 chilometri dal Passo Rolle, ma la prudenza (o la fifa) mi hanno suggerito di bivaccare all’Aldo Moro, aggiungendo pertanto la mattina successiva per raggiungere il passo.

Tappa Partenza Arrivo Distanza (km) Dislivello (mt) Durata (ore)
1 Chalet Panarotta Rifugio 7 Selle 17 950
2 Rifugio 7 Selle Laghetti Lagorai 27 1,540 10
3 Laghetti Lagorai Forcella Coldosè 18 1,050 7½ 
4 Forcella Coldosè Biv. Aldo Moro 14 1,370 7
5 Biv. Aldo Moro Passo Rolle   8 220 3 ½
84 5,130 33 ½

 

cima d asta

una meravigliosa veduta della Cima d’Asta dalla forcella Coldosè

Giorno 1 – Chalet Panarotta – Rifugio 7 Selle

17 km, D+ 950 metri

Sono le 6.30 di mattina e c’è una luce pallida in cielo, pesante ricordo di una pioggia che oramai si allontana. Il cielo è dello stesso colore del gravame che sento di portare nel cuore, anche se temo serviranno mesi per comprendere che non mi è possibile ricorrere in appello.
Lo chalet Panarotta è chiuso e desolatamente disabitato, nonostante sia la seconda settimana d’agosto. Bene così, è quello che cerco: una solitudine di pietra grezza, per evitare di ammorbare altri con il mio disagio emotivo, che in queste settimane è sprofondata decisamente in basso.
Ho scelto la Translagorai per espiare il peccato di essere imperfetto, per i suoi su e giù così simili al mio carattere.
Ho mangiato una pessima colazione nell’orribile B&B che ho condiviso con Roberto che mi ha accompagnato a Levico – in cambio di una serata di birra e musica – ora benedico di averlo fatto, ma avrei volentieri bevuto un caffè prima di cominciare il trekking che si preannuncia duro sin dal primo giorno.
Fatica, fatica, e ancora fatica. Sei qui per questo, mi ripeto come un mantra. Disciplina e fatica: la grazia di essere parte della natura, di trasformarmi in animale, in pianta, in acqua.
Mi sono dato un obiettivo di 4 giorni per terminare la traversata: ho il terrore di non resistere di più all’incombente sensazione di non essere l’uomo che vorrei essere, di non essere forte abbastanza per sopportare.
Con me ho cibo per un paio di giorni, ma confido di trovare rifornimenti nei rifugi che incontrerò da qui al Passo Manghen.

Translagorai Panarotta

la partenza: sullo sfondo il malinconico chalet Panarotta

La prima ascesa

Comincio a camminare in totale solitudine sulla pista da sci in direzione di cima Panarotta, la prima di una serie di creste che mi attendono.
Mi rendo conto di aver dimenticato i bastoncini da trekking al parcheggio del rifugio, e devo ritornare sui miei passi per un buon chilometro e un centinaio di metri di dislivello.
Sono le 7, quindi. Ricominciamo.
Con un sorriso malinconico cammino questa volta sul sentiero 325, che dopo aver sorpassato una malga a est punta verso il Monte Fravort, una ascesa impegnativa di quasi 600 metri di dislivello che mi fa subito capire che qua non si scherza. 
Il sentiero è diretto, dritto su un crinale ben battuto, come una rampa di lancio. Niente serpentine per addolcire la pendenza, bum, welcome to Lagorai.
Il battito del mio cuore schizza in su mentre guadagno metri e il sudore comincia a imperlarmi la fronte.
Supero i resti di una vecchia baracca militare e sono in cima, dove una croce di ferro ricorda altri momenti dolorosi. L’aria è straordinariamente quieta. Non un rumore a vivacizzare una scena che altri hanno recitato cento anni prima di me, con un fucile a baionetta a tracolla e l’animo in pena, proprio come il mio.
Vedo il Monte Gronlait a nord, a meno di un battito d’ali per il planare di un falco. Per me invece saranno quasi tre quarti d’ora di fatica, perchè devo ridiscendere un paio di centinaia di metri per risalire poi il versante meridionale.
Continuo a respirare con affanno, sono comunque sopra i 2,300 metri ed è la mia seconda uscita in montagna in quasi un anno. Avevo la testa impegnata su altro: come mi stavo sbagliando.

Translagorai monte Gronlait

dalla sommità del Fravort si intuisce il sentiero che sale dritto sul monte successivo

Un incontro particolare

Sul Gronlait la croce è di legno, molto semplice e anonima proprio come anonima sembra la montagna. Eppure è bellissima proprio nella sua austerità, nel suo essere senza fronzoli.
Mi costringo a mangiare una barretta non per fame, ma per mettere carburante dentro il motore che sta consumando più del dovuto.
Il tempo verso ovest sembra peggiorare, credo che pioverà presto e io ho ancora molto da camminare.
Il sentiero  si fa più impegnativo mentre arranco su una altalena pietrosa che perlopiù scende verso il lago di Erdemolo, e comincia a mostrare la sua anima più rude.
Per il mio ginocchio non è un buon affare, e discendo appoggiandomi con cautela su gradoni di roccia parzialmente erosi dal tempo.
Quasi a mezzogiorno faccio il mio primo incontro di giornata: una pecora si frappone tra me e il nord e mi guarda sbalordita piazzata nel mezzo della forcella. Sbalorditi siamo tutti e due per la verità: sembriamo entrambi alla ricerca di qualcosa, del nostro posto nel mondo animale, e in qualche modo so che comprende la mia infelicità, e ne condivide le motivazioni.
Siedo per qualche minuto e la osservo mentre si muove con grazia leggera sui sassi: si avvicina quasi a sfiorarmi la mano, prima di proseguire alle mie spalle e ridiscendere più a valle in cerca del suo gregge. Mi chiedo se non dovrei farlo anche io.

Translagorai croce sul Gronlait
Translagorai pecora

Arriva il temporale

Il fragore del tuono mi riporta al presente: sono completamente esposto al maltempo, meglio affrettarsi a scendere di quota in direzione del rifugio Sette Selle, che è circondato da un boschetto che può offrirmi rifugio e un buon spot per allestire il campo per la notte.
Il sentiero 325 scende più docile verso ovest, io invece rimango sulla traccia più orientale (343) e affretto il passo sulla cresta fatta di gradini di porfido ricoperti di peluria verde, per mettere alle spalle altre tre cime in rapida successione e presentarmi sotto l’impressionante mole del Sasso Rotto senza mai essere sceso di quota.
Un gruppo di marmotte rese nervose dal temporale in arrivo sono la mia compagnia sulla morena di rocce rotte che rendono il nome del monte da cui sono piovute decisamente azzeccato. Anche io sono un po’ nervoso: il ginocchio destro non ama questi appoggi instabili in discesa e temo possa gonfiarsi rendendo più fastidioso il cammino.
Dopo aver superato la Cima Sette Selle comincio a scorgere la caratteristica struttura in pietra e legno del rifugio, dove arrivo poco dopo, proprio quando iniziano a cadere le prime gocce di pioggia.
Sono da poco passate le 14.

Translagorai Sasso Rotto

in cresta verso il Rifugio 7 selle

Trail magic

Il rifugio sembra aperto anche se non c’è nessuno nei paraggi, e questo mi sorprende molto nonostante la giornata pessima, ma non è la mia preoccupazione più grande: nel breve c’è il temporale di cui occuparsi, il ginocchio disarticolato dalle pietre, la psiche disarticolata dai pensieri negativi che non sono riuscito a placare.
Tutto potrebbe sembrare meglio dopo un caffè. Con circospezione provo ad aprire la porta della baita e nonostante la poca luce all’interno mi sembra di aver varcato un portale interiore. Sento profumo di trail magic: starò bene.
Nel rifugio ci sono solamente il gestore e quella che suppongo essere la figlia, sui vent’anni. Mi dice quasi con orgoglio che fino a poco prima il rifugio era pieno, con una comitiva di famiglie in visita alle miniere di Erdemolo, ridiscese a valle in tutta fretta per l’approssimarsi del temporale. Che differenza con il caos rumoroso della Val Gardena o di altre valli decisamente più turistiche!
Chiedo se è possibile cenare più tardi, magari verso le 6. L’inclemenza della pioggia mi suggerisce di rimanere al riparo il più possibile. La giovane ragazza guarda il gestore – che fino ad allora mi aveva l’impressione di burbera distanza – il quale non esita a offrirmi di dormire nel rifugio senza pagare nulla. Non mi faccio certo pregare – un thru hiker non si fa mai pregare ad accettare l’ospitalità delle persone.
Mi sistemano in una stanzetta con due letti, immagino sia quella utilizzata solitamente dai rifugisti stagionali. Osservo la pioggia gocciolare intorno, assaporando il petricore aromatico dei fiori sul davanzale che mi fa sentire un tutt’uno con la splendida Natura che circondano la baita.
Scendo per la cena, e mangiamo tutti e tre in quasi totale silenzio come se fosse una forma di rispetto di questa catena montuosa ancora così selvaggia e isolata.
Il temporale continua ad impazzare alternando lunghe pause a scrosci violenti.
Scrivo un messaggio alla donna che amo e che devo lasciare andare, cercando di liberarmi dal fardello ingombrante della sua assenza. Per un momento mi libero dalla preoccupazione: domattina mi alzerò all’alba e sarà tutto a posto. Ne sono sicuro.

Giorno 2 – Rifugio Sette selle – Laghetti di Lagorai

27 km, D+ 1,440 metri

All’alba mi sento meglio, quasi riposato, sebbene non abbia dormito granchè. L’ingombro amaro della solitudine mi avvolgeva molto stretto ieri notte, molto più stretto del sacco a pelo; ma la pioggia battente, viva e rumorosa, ha parzialmente aiutato a distrarmi da questo affanno pesante che mi grava sul petto.
Una luce piena di speranza si tuffa nella stanzetta: l’alba ha spazzato via il temporale e, con lui, paiono diradarsi alcune delle ombre che porto con me. Mi sento diverso rispetto a ieri, più consapevole di quello che sono: uno che ha attraversato gli Stati Uniti a piedi solo pochi anni fa. Quando non avevo ancora quarant’anni; quando lei non c’era ancora.
Sono qui per apprezzare la severa lezione della pietra, imparare dalla resilienza del cirmolo, ammirare le radiose aurore e gioire della fatica del cammino.
Il ginocchio non fa troppo male, comincio ad acclimatarmi e sento il desiderio profondo, ancestrale, di camminare. Quel delizioso tormento che mi porto dietro da una vita.
La malattia degli ultimi mesi, la peritonite, l’operazione d’urgenza, la difficoltà di mettere un passo davanti all’altro senza ansimare e la depressione di non essere quello che vorrei, di non piacere a quel me che ho in testa; tutto sembra essersi liquefatto stamattina.

Faccio colazione con il gestore: la figlia è andata a correre nel bosco,  non prima di aver apparecchiato la tavola anche per me. Mangio tutto con gusto, cibo semplice, povero, delizioso.
Prima di andarmene, insisto per pagare l’ospitalità. Ci accordiamo per il pagamento della cena. Come si faceva nelle vecchie stazioni di passaggio per i viandanti, come si fa ancora in Nepal o in India: la cena comprende anche un giaciglio per la notte e la biada per il cavallo.

Translagorai 7 selle

il tratto di bosco appena lasciato il rifugio

Di nuovo sul sentiero

Abbandono il rifugio che mi ha curato, sapendo di avere tante ore di cammino davanti a me: se voglio arrivare al passo Rolle entro 3 giorni devo recuperare qualche chilometro lasciato indietro ieri.
Il sentiero 340 costeggia un boschetto per mezzo chilometro: l’ombra è fresca ma la giornata promette già di essere molto calda. Incontro G., la figlia del gestore, che ritorna saltellante al rifugio per cominciare a preparare il pranzo per gli escursionisti di giornata. Scambiamo qualche parola di cortesia, dal mio punto di vista il minimo per l’ospitalità offerta, ma siamo entrambi in imbarazzo. Anche lei non sembra particolarmente desiderosa di avere questa conversazione.
Esco dal bosco con il sole che quasi mi acceca, guadagno percorrendo un centinaio di metri di dislivello la Cima Palù (2,261 mt) e con una bellissima mezza costa in cui il verde è il clore dominante raggiungo il Passo Cagnon di Sopra, uno dei tanti della giornata. Sudo già copiosamente, ma sono contento di questa fatica perchè sembro vivo, non la pallida controfigura che era arrivata a Levico Terme. La vista si estende sui magnifici alpeggi che circordano la Malga Cagnon di sopra. Proseguo sul sentiero 461 rimanendo sulla cresta fino alla forcella di Passo Cadin (2,108 metri) dove conto almeno 4 diversi sentieri CAI che scendono nelle vallate sottostanti. Io proseguo a est, sul 310, in direzione del Passo Manghen.

Translagorai passo Cadin
Translagorai passo Cadin

Ora mi sento davvero bene, e il sentiero diventa scorrevole e magnifico: zizzaga in leggera discesa sotto alcune cime fino al bivacco A.N.A Mangheneto, posto in posizione panoramica ma già disturbato dai rumori delle motociclette che percorrono la SP31 che sale al Passo Manghen. Come una lucertola mi fermo sulla soglia del bivacco – decisamente spartano – per lasciare che il sole, oramai alto nel cielo, mi riscaldi il sangue e mi conceda la sua energia.
Leggo qualche pagina del libro di Hamsun, avvolto dallo zanzaroso carosello di api che si aggirano quasi a darmi il benvenuto, mentre una farfalla si posa sul mio ginocchio sinistro. La natura fa del suo meglio per dimostrarmi che non sono solo, ma io così mi sento.
Riparto in direzione del passo Manghen, un paio di chilometri piuttosto agevoli anche se devo ridiscendere un centinaio di metri per poi risalire di nuovo.

Translagorai bivacco mangheneto

il  bivacco Mangheneto

Un bagno ristoratore

Il rifugio è letteralmente circondato da motociclette, biker con le loro bandane rockettare e ciclisti che ad alta voce si congratulano tra di loro per la salita. Entro nella sala ristorante solo per trovarci una moltitudine di bambini arrivati in pullman in attesa del pranzo. Ho bisogno di procurarmi il pranzo perché non ci sono molti altri ristori lungo la pista, a meno di non costringersi a deviazioni significative e successive risalite per raggiungere una delle malghe disseminate nella catena del Lagorai.
La mappa indica un laghetto e una sorgente di acqua non molto lontano dal passo, ed è lì che mi fiondo per mangiare un panino decisamente insapore e una fetta di torta. Trovo intorno al laghetto altri turisti di giornata con le loro sedie da picnic e scambio con cortesia qualche parola.
Poi mi isolo sulla sponda più lontana per togliermi i vestiti e in boxer entrare nell’acqua limpida, dove rimango per un paio di minuti, fino a quando comincio a perdere sensibilità nei piedi. Qualcuno si avvicina per scattare una foto: c’è sempre un pizzico di sorpresa ammirazione in queste situazioni in cui il backpacker incontra il turista di giornata.
Non è fredda? Stai facendo la Translagorai? Ma sei da solo? Dormi in tenda? Non hai paura? Fa piacere perchè aiuta la mia autostima, ma vorrei gridare ai due giovani sposi, e anche alla loro bellissima bimba che insegue una marmotta, la cruda verità. Cioè che sono quassù da solo, e stanotte dormirò in tenda da qualche parte, perché sono profondamente infelice, e solo così mi sento consapevole di valere qualcosa. Come vorrei cambiarla con la vostra presunta normalità.
Mi godo la conversazione ancora qualche minuto perché sto per entrare nella parte più isolata e bella della Translagorai. Per i prossimi 2-3 giorni niente rifugi, niente strade, niente approvvigionamento.

Lagorai lago delle Buse

il  Lago delle Buse poco dopo il Passo Manghen

Un altro lago incantevole

Riprendo il cammino poco dopo le 14: il sentiero 322 sale docilmente incontrando numerose forcelle: Forcella del Frate, Forcella Ziolera, Forcella Pala del Becco.
Le gambe girano meglio, e di nuovo ripenso a dov’ero solo pochi mesi prima, sul letto d’ospedale col morale sotto i tacchi e la paura di perdere tutto.
Supero il Lago delle Stellune e una sorgente dove mi bagno il viso e faccio scorta di acqua. Il sentiero – che nel frattempo è diventato 321 – prosegue sempre a mezza costa, sopra i 2,300 metri, e si fa più impegnativo salendo verso la Cima di Lagorai, tra trincee della Grande Guerra e pezzi di filo spinato gettati a terra tra le pietre. Il sole si sta abbassando alle mie spalle e la mia ombra si allunga sugli sfasciumi sui quali si inerpica il sentiero. Sullo sfondo verso Nord il profilo del Paion del Cermis e della funivia tristemente famosa.

lago delle stellune

l’incantevole lago delle Stellune

Sono sulla forcella Lagorai (2,372 metri) alle sei di un pomeriggio ancora caldo, stanco dalle molte ore di cammino e dal dislivello affrontato. Da qui in avanti e fino alla forcella Litegosa il sentiero rimane in alta quota e sui miei appunti ho segnato alcuni passaggi con il triangolo rosso di pericolo. Meglio accamparsi per la notte e affrontarli freschi domani, magari in compagnia di qualche altro escursionista, anche se al momento pare alquanto improbabile.
Dalla forcella si vede una lunga valle sassosa che scende verso il Lago Lagorai: è punteggiato da laghetti più piccoli, che sembrano un ottimo punto dove allestire il campo senza scendere troppi metri che dovrò poi risalire per tornare in cresta.

lagorai forcella
forcella lagorai

Scendo per un centinaio di metri sino alla sponda orientale del primo dei laghetti, dove trovo tra i grandi sassi uno spiazzo verde ideale per mettere la tenda, disturbando un paio di marmotte che fischiano infastidite dal mio arrivo. Come spesso succede sulle Dolomiti la sera, alcune nuvole temporalesche si alloggiano sulla forcella da dove sono appena sceso.
Prima che l’oscurità avvolga questa valle di pietra silenziosa, metto a bollire un po’ d’acqua per cuocere la cena e preparo la tenda mentre aspetto.
Una folata d’aria fredda rischia di spegnermi il fornellino e mi ricorda che a 2,000 metri le notti sono fresche anche d’estate. E che non tutti sarebbero qua da soli a riscaldarsi del farro precotto per cena, con l’unica compagnia di un libro e delle nuvole inquietanti che sembrano voler creare l’ennesimo muro figurato tra me e la civiltà.

Lagorai campeggio libero

allestisco il campo mentre le nuvole mi circondano

2 Comments

  1. Bruno

    Grazie per questo primo pezzo di cammino. Io da anni passo le vacanze a Roncegno (Valsugana) e il Fravort lo si vede bene da ogni parte del paese; per il nonno Fabio (mio padre, mancato nel 2000) è stato un grande amore, vissuto in molte salse, dalla fissazione al romantico. Una delle performance estive minime per poter ricevere i gradi di aspirante camminatore era quella di fare, in giornata, la gita Roncegno – Cinque valli – Fravort e ritorno. Ricordo ancora verso sera gli arrivi snocciolati di camminatori e veschiche sull’orlo di una crisi di nervi che sfilavano davanti agli amici che li aspettavano all’altezza del cimitero..Se hai amato il Fravort capisci meglio la fissa dei giapponesi per il monte Fuji, considerato una delle “tre montagne sacre del Paese, a tal punto che gli shintoisti considerano doveroso, almeno una volta nella vita, un pellegrinaggio sulle sue pendici. Ho seguito anche , in punta di piedi, il racconto sincero e crudo della tua sofferenza interiore: mi dispiace e non so cosa le persone intorno a te possano fare. Certo il fatto di scrivere e raccontare potrebbe già essere una buona terapia, ma forse se andassi in montagna con della compagnia forse non sarebbe utile per il tuo umore? Dici che senti di non essere la persona che vorresti essere ma io ti dico che capita a tutti, anche a me. I sogni e i progetti che da giovani ci hanno fatto sognare hanno lasciato il posto a una nuova consapevolezza mista a delusione. Mi viene da dire che ognuno convive (che fare diversamente?) con il suo disagio ma che è normale, è il prezzo del biglietto di questo viaggio che chiamiamo vita. Continua a camminare e a scrivere che hai della stoffa. Auguri sinceri . BC

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    • italian supertramp

      Ciao, innanzitutto ti chiedo scusa per il ritardo nella risposta, ma non volevo rispondere in modo affrettato al tuo messaggio.
      Grazie per aver condiviso un tuo ricordo riguardo al Monte Fravort, è un racconto che arricchisce il mio post e che sono onorato di pubblicare.
      E’ molto difficile in poche righe ripercorrere le emozioni e il disagio psicologico che portavo come un pesante fardello nello zaino in quell’agosto, e che ho volutamente lasciato trasparire nella narrazione per tenere inalterato quello che – a tutti gli effetti – è il mio diario originale del cammino.
      Non credo sia nemmeno il caso di farlo, è qualche cosa che appartiene oramai al passato e, come giustamente dici, ad una consapevolezza delusa che le cose non sono andate come avremmo voluto.
      Ma di certo non ho paura né pudore particolare a nominare il male oscuro che mi attanagliava e, ogni tanto, torna a far capolino: la depressione.
      Il trekking è stato, ed è ancora, un mezzo per sfuggire a questo disagio. Un salvagente per tenere la testa fuori dall’acqua, fatta di chilometri e chilometri di cammino, calzini puzzolenti, bivacchi improvvisati e incontri inaspettati.
      Potrebbe essere diverso se fossi in compagnia?
      Mi sono interrogato molto su questa domanda. E ogni volta che parto per un piccola passeggiata nei boschi, per citare Bryson, non manco mai di chiedermelo.
      La risposta che mi sono dato è no. Non cambierebbe poi molto.
      è quasi come se camminassi da solo perché ho paura di stare da solo. Sembra un nonsènso, ma non riesco a spiegarlo meglio.
      Se Chris McCandless aveva ragione nel dire che la felicità è reale solo se condivisa, io credo che invece l’infelicità debba essere protetta, nascosta, non per vergogna ma per non diffonderla come un virus.
      Questo naturalmente vale per me, non in senso generale.
      Grazie ancora per il tuo messaggio.

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